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Al massimo diventeremo dei senzatetto molto istruiti. Di New York, i libri e altre ostinazioni romantiche

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È in libreria Non è un mestiere per scrittori. Vivere e fare libri in America di Giulio D’Antona (minimum fax): pubblichiamo una conversazione tra Claudia Durastanti e l’autore e vi segnaliamo che oggi, domenica 3 aprile, alle 15 Giulio D’Antona presenta il libro alla fiera Book Pride di Milano con Laura Pezzino (Sala Mompracem) (Fonte immagine)

Anni fa, il mio primo caporedattore mi spiegò che non dovevo avere paura di telefonare a un autore che avevo amato e mi metteva in guardia da una soggezione che poteva risultare poco professionale. Non gli ho mai dato retta, e di telefonate di quel tipo ne ho fatte poche. Giulio D’Antona invece le ha fatte e ogni volta che l’ho sentito raccontare dei suoi soggiorni americani, ammetto di aver provato invidia per la disinvoltura con cui riusciva a rimediare appuntamenti con colossi come Renata Adler (oltre ad aver pensato che il mio primo caporedattore lo avrebbe assunto seduta stante).

Quando mi ha parlato di un eventuale libro in cui raccogliere queste interviste e questi incontri, però, la stima professionale e il divertimento sono stati scavalcati da un’oggettiva preoccupazione. Che senso aveva pubblicare un ennesimo libro su cosa fanno gli scrittori a New York? Pur restringendo il campo dell’indagine agli anni della crisi finanziaria e dell’inesorabile erosione del mestiere dovuta all’informazione digitale, un reportage del genere non andava ad alimentare una serie di miti, cliché e nostalgie che ormai ci lasciano sempre più inerti e stanchi?

Io un altro libro sui favolosi anni Settanta e la malinconia dei porti e gli incendi del Bronx e la brutta fine fatta dal CBGB’s e i circoli dei poeti che hanno chiuso non volevo leggerlo. Bene, il libro di Giulio non parla di questo, ma è il tentativo – oserei dire romantico – di raccontare e di capire perché ancora oggi non solo qualcuno si sposta in quella città con l’idea di fare lo scrittore (in netta controtendenza con quelli che si stanno trasferendo non dico a Los Angeles ma anche solo a Philadelphia), ma perché qualcuno si ostina a fare lo scrittore e basta, in qualsiasi luogo si trovi.

Qualche mese fa, Giulio e lo scrittore e amico Fabio Deotto hanno deciso di trascorrere l’inverno a Brooklyn a lavorare ai loro libri, bere e fare altre cose divertenti in cui sospetto che la mia presenza – se solo li avessi effettivamente raggiunti – li avrebbe probabilmente imbarazzati. L’idea era che prima o poi sarei partita anche io e ce ne saremmo andati in giro a lamentarci dei mali dell’industria prima di noleggiare una macchina per andare a trovare Nickolas Butler in Wisconsin, visitare la casa di Faulkner o scendere in Texas per parlare male del SXSW (tutte ipotesi ventilate attraverso un servizio di messaggistica istantanea e poi puntualmente rinegoziate o dimenticate). Non so quanto dei mesi vissuti in questo modo avrebbero aiutato le mie storie; spero che abbia fatto bene alle loro.

Prima di partire, però, ho dovuto risolvere un dilemma di cui parla Giulio nel suo libro in una maniera che è già americana, molto pragmatica e molto diretta, di affrontare il problema. E cioè: tra uno stipendio mediocre ma assicurato e la fedeltà alla propria vita letteraria libera dai vincoli del quotidiano, cosa può e deve scegliere uno scrittore che non vende?

Per farla breve, prima di partire ho trovato un lavoro in ufficio, suscitando stima in alcuni colleghi scrittori che condividono un mestiere che appunto non è per noi, ma più spesso attirando commenti inorriditi e moti di autentico ribrezzo. Leggendo il libro di Giulio e i casi che prende in esame, ho pensato molto ai diversi contesti in cui io e lui ci siamo ritrovati a scrivere.

Non so chi ha fatto meglio il proprio lavoro, e non credo ci sia una regola: la fedeltà alla parola scritta può essere un’ossessione, ma non è sempre un dovere. Come dice Anna Stein, New York fa malissimo agli autori e non dovrebbero andarci; ma anche discuterne troppo fa malissimo ed è per tale ragione che leggere questo libro è stata un’esperienza gratificante: perché non parla d’altro che di scrittura, eppure lo fa con un equilibrio e una trasparenza che non solo insegna qualcosa senza la presunzione di farlo, ma condivide anche il proposito della letteratura che preferisco: quella che oltre a intrattenere consola.

In uno dei miei passaggi preferiti del libro, l’autore scrive: «Ho incontrato decine di persone meravigliose. Scrittori che sono stati talentuosi abbastanza a lungo da completare un romanzo o una raccolta di racconti, ma che poi si sono trovati alle prese con il dovere e hanno scoperto di non essere abbastanza allenati per continuare a correre in salita. La maggior parte delle donne e degli uomini che compaiono tra le pagine di questo libro, in effetti, vivono in quell’intercapedine tra l’inesistenza e la notorietà». Nonostante tutti gli incontri prestigiosi che ha fatto, resto convinta che Giulio abbia scritto questo libro soprattutto per loro.

(Nella seguente conversazione l’autore fa molte citazioni. È fatto così).

La prima volta che abbiamo parlato di questo libro avevo il terrore che si configurasse come un’indagine sociologica o di mercato che avrebbero potuto rifilare negli esami di Teoria e Pratiche dell’Industria Editoriale, poi ho immaginato che diventasse una raccolta di interviste sul modello Paris Review, finché non ricordo distintamente che durante una passeggiata a Milano ti ho chiesto perché non diventavi anche tu una parte del viaggio che in fondo stavi raccontando. Penso tu ci sia riuscito, mantenendo un certo riserbo e autocontrollo che mi risulta caro di questi tempi.

Grazie, il bello è che ha passato proprio tutte quelle fasi, ma le prime due in ordine inverso: avevo un sacco di interviste che volevo diventassero qualcosa e ne avevo in mente altrettante da fare. Poi a qualcuno è venuto in mente di aprire un “osservatorio sullo stato dell’editoria americana” e a qualcun altro, per fortuna, è parsa una cattiva idea.

Però l’intervista ora la faccio io a te: la tua parziale ritrosia è perché credi davvero che il tuo mestiere sia scrivere le storie degli altri, o è perché non sei in grado di dare una risposta a una domanda che comunque ti riguarda? E cioè: come sopravvivremo a questa fase di transizione? So cosa ne pensano Emily Gould e Lorin Stein di declino e reinvenzione e specializzazione dell’industria, ma vorrei capire se tutte queste conversazioni ti sono servite a formulare una tesi credibile, se non stabile.

In parte è così: credo che il mio mestiere consista veramente nell’osservare cosa succede alle vite degli altri. Ho scelto gli scrittori americani, ma avrei potuto diventare un osservatore politico, un critico culinario, un bushman esperto in grandi felini. Non cambia molto. Ci ho provato, in un paio di occasioni, a fare della letteratura, ma poi ho scoperto che mi riesce meglio scrivere di quella degli altri. Dipende dal fatto che mi faccio sorprendere da quasi tutti gli impulsi creativi e che a mia volta nutro un impulso all’emulazione. Come scriveva John Leonard: «Ho deciso di sfruttare le capacità di chi è più bravo di me per campare, mentre loro hanno il coraggio di fare la fame».

Riguardo alla mia idea: ne ho una, che mi sono formato nel corso delle interviste, ma non attraverso le interviste. Piuttosto scrivendo, prendendo coscienza del fatto che non stavo più vendendo un articolo a un giornale o a una rivista, ma che stavo mettendo assieme un libro che prima o poi sarebbe andato ad alimentare lo stesso sistema che stavo cercando di indagare. Repressa la vertigine del paradosso, è iniziata l’autocoscienza. La verità è che nemmeno io lo so come andranno le cose. Ho cominciato pensando che il futuro fosse nerissimo e che avremmo dovuto piantarla di scrivere e pubblicare libri, ma piano piano mi sono reso conto che ha ragione Marco Roth quando dice che il mercato esisterà finché ci sarà un lettore disposto a leggere.

Questo è sia un messaggio di speranza che si legge come si scrive, sia un presagio: l’editoria americana, quella che io mi fregio di chiamare “industria” per far accapponare la pelle agli intellettuali, è cocciutamente sopravvissuta alla crisi. Ha deciso che sarebbe andata avanti malgrado il calo dei lettori, Amazon, il disinteresse generale, la mancanza di fondi. Con una presa di posizione tanto scellerata, è dura dire come andrà a finire. Ma è anche ammirevole, romantico, qualcosa per cui valga la pena continuare a sperare. Come quell’ufficiale serbo che con Sarajevo assediata e il suo quartier generale sventrato si fa portare un pianoforte e si mette a suonare dalla terrazza che è diventato il suo salotto per «Tirare su di morale chi è rimasto vivo».

Non riesco bene a parlare della New York che descrivi, un po’ per conflitti irrisolti, e un po’ perché somiglia sempre di più a Fantasia per me, un mondo e un ecosistema che teniamo in vita a furia di raccontare storie che non sono più corroborate da date empirici o da modelli di vita sostenibili. Non a caso tutte le figure legate a quella scena sono morte o sono emigrate altrove. Potremmo parlare a lungo di Atticus Lish qui, o delle tue puntate nella Middle America di Vonnegut, Franzen e Butler che restano tra le mie preferite nel reportage, ma non lo faremo. O potremmo parlare del Texas di Tierce e Fountain (cosa che mi andrebbe, prima o poi).

New York non esiste più, benché non esista altro. Cito Paolo Cognetti: «La letteratura americana è tornata al suo stato selvatico».

Leggo delle tue incursioni nella società letteraria newyorchese con una fascinazione antica, quasi classica, simile a quella suscitata appunto degli incontri della Pivano o di Tom Wolfe. In questo senso– al di là del glamour e degli aneddoti su certe figure che hai incontrato e che mi riportano appunto a un certo giornalismo culturale degli anni Settanta– uno degli episodi che preferisco è quando incontri Yelena Akhtiorskaya e bevete una birra in uno dei pochi posti disponibili a Brighton Beach e lei ti parla del suo lavoro part-time in ospedale (“È il lavoro più noioso del mondo”), dei debiti contratti per iscriversi a un MFA e della relativa utilità dello stesso, con una concisione che ho trovato significativa e che penso dica qualcosa su di me, su di te, adesso. A differenza delle cronache di Ames o Lypsite, che son divertenti, le sue parole hanno una funzione che non è di solo intrattenimento.

Mi fa piacere che tu abbia colto proprio questa distanza: tra Yelena e Jonathan Ames o Sam, e aggiungerei quella ancora più abissale tra Philip Roth e Tomm (il mio amico meno che esordiente). È vero: quella New York, quel mondo lì non esiste più, ma è importante ricordarsi che è esistito per avere un termine di paragone. Immagino che tu ti riferisca alla New York delle opportunità, dei manoscritti nei cassetti e delle notti insonni. Ora la città è un’altra cosa, una facciata cortese per un’industria (di nuovo!) ben cosciente della propria influenza che dorme sugli allori di un passato avventuroso e molto molto ricco.

Io sono un curioso e un osservatore e non molto di più: non ho paura di rimanere deluso dalle persone che ammiro perché se c’è qualcosa che mi piace più della letteratura è la realtà dei fatti e per coglierla bisogna mettersi tra i fatti e la letteratura. È quello che mi ha fatto scrivere questo libro, in realtà: volevo qualcosa che mi raccontasse come stanno le cose e volevo che non fosse più filtrato da nessuno.

Per tornare a qualche paragrafo fa: mi rendevo conto che mi stavo immischiando con lo stesso sistema che avevo paura potesse renderci tutti dei senzatetto molto istruiti, ma andavo avanti, solo per il gusto di vedere coi miei occhi — non ho la pretesa di capire, anche. Mi stanco e passo oltre, poi mi ritrovo quelle storie di nuovo tra i piedi. La verità è che quelle storie fanno parte della realtà di oggi perché fungono da memoria melodrammatica e punto focale sul quale concentrare la malinconia. Aiutano a capire meglio come vanno le cose.

Se scendi a Red Hook, vedi ancora gli edifici dei magazzini di smistamento, riconosci i ganci e i binari i bancali e i tralicci e i moli. Solo che non sono più magazzini ma sono bar e ristoranti e atelier e uffici e loft di lusso. Ricordarti del porto serve a farti incazzare ancora di più o tirare un sospiro di sollievo perché nessuno sta cercando di derubarti con un ferro acuminato.

Eppure ammetti apertamente che molto te lo hanno insegnato gli scrittori nell’intercapedine tra notorietà e sopravvivenza. La generazione di scrittori al secondo romanzo: dovrebbe essere un momento esistenziale che riguarda F. Scott Fitzgerald come Ben Lerner, eppure è un momento molto più tragico per il secondo che per il primo. E parliamo di un caso felice, con Lerner: figurati gli altri.

È quello che ho provato a fare: so come vivono McCarthy, King e anche Roth. Quello che non so è con che faccia tosta, dopo aver esordito in questo panorama, uno scrittore decide di scrivere ancora.

Ho letto le bozze che mi hai spedito prima di incontrare chi sappiamo, non so ancora se nella versione in commercio se ne parla. Quando me lo hai raccontato ho pensato a come sarebbe stato per me incontrare DeLillo, ma il fatto è che non saprei proprio cosa dirgli, mentre posso parlare ininterrottamente di lui per giorni. Sono una specie di groupie al contrario credo; la distanza dal soggetto è proporzionale all’ammirazione che suscita. Invece tu hai un atteggiamento radicalmente diverso: vorrei che me ne parlassi e che fossi anche severo con te stesso, se serve. Cosa ti spinge a questa ricerca di intimità con gli autori che stimi? Non è uno sforzo solo conoscitivo o positivista, è anche fragile e ingenuo, e penso sia bello che tu sia riuscito a preservare questo tono.

Possiamo parlarne: non ne scriverò mai e nel libro non c’è. Ti risparmio l’aneddoto sul come e il perché (o me lo risparmio io, visto che mi sono già seccato la gola a forza di raccontarlo e potrebbe essere la cosa più interessante che dirò alle presentazioni), ma sì, a un certo punto sono stato a casa di Mr. Roth. Lui in calzini e io in stivali. La prima volta che ci siamo visti mi sono serviti un paio di bicchieri di vino, anche perché eravamo in una situazione sociale non volevo davvero fare la parte del groupie che non mi si addice nemmeno fisicamente.

Poi a casa sua — un indirizzo sotto il quale sono passato centinaia di volte — mi sono presentato con del caffè, che non beve, non ho tolto le scarpe e forse avrei dovuto, sono stato per tre quarti d’ora pronto ad andarmene ma lui mi ha chiesto di restare. Non sapevo cosa chiedergli, avevo i pensieri incastrati nelle orbite tutti assieme, come i tasti delle macchine da scrivere quando si inceppavano, e allora gli ho chiesto degli Yankees, se aveva visto qualche partita la stagione scorsa. Mi ha risposto che non andava più allo stadio perché, «Ora hanno inventato il televisore», e poi ha fatto la cosa che mi ha definitivamente messo a mio agio: ha cominciato a farmi domande.

Lui faceva una domanda e io iniziavo a rispondere, mi fermavo a metà e ne facevo una a lui (mi sentivo in colpa a rispondergli senza fargli domande) e lui mi rimproverava perché io non gli stavo rispondendo. Siamo andati avanti così per tre ore, quasi e mi è andata bene: pare che ci siano giorni in cui è molto scorbutico. Non posso aggiungere molto, perché ho promesso di non scriverne davvero. E non lo posso fare. Ma ne parlo — ah, se ne parlo! Ora devo fargli spedire Le benevole di Jonathan Littell e vediamo cosa ne uscirà.

Il fatto che io voglia conoscere, parlare, condividere, deriva dalla stessa curiosità infantile di cui ti scrivevo un po’ sopra. Ho costruito il mio immaginario su dei nomi e delle voci e delle fotografie, a molte delle quali non potrò mai dare una forma tangibile, ma le altre (Roth, De Lillo, McCarthy…) sono ancora lì e io ho i mezzi e l’età per andare a cercarli, fuori dai panel e dalle conferenze stampa. È come chiudere la mia esperienza, andare alla fonte di qualcosa che ho bevuto per anni con soddisfazione ma senza poter esprimere la mia gratitudine a chi lo ha prodotto. Mi serve per capire.

Parlare di donne con Mr. Roth mi serve per chiudere un interrogativo nato con Portnoy, così come sarebbe bello cavalcare con Cormac McCarthy. Avrei voluto poter incontrare Updike per tirargli fuori tutta la timidezza che condividiamo, Oriana Fallaci per sentirla mentire, Mitchell per provare tutte le tuna salad di Manhattan. Attaccare a quella letteratura un’esperienza. È un impulso adolescenziale, hai ragione tu, infantile. Ma vedere succedere le cose che ho letto, vedere la letteratura quando non è ancora (o non è più nel caso di Roth) letteratura è commovente.

Pur affrontando il tema della critica in questo percorso ondulato e armonico tra scrittori, editori, agenti, librari e critici appunto, mi pare che tocchi solo tangenzialmente una questione che sento come molto rilevante: ovvero l’incidenza della crisi sullo stile, sul modello, sulla scrittura in se e non solo sulla veicolazione della stessa. Anche se James Wood dice di non aver individuato un trend se non dei casi isolati dai tempi del realismo isterico, penso che seppure in maniere molto diverse, due autori come Knausgaard e Lerner stiano offrendo delle risposte che affrontano nel testo il problema dell’irrilevanza della letteratura. Le reazioni stilistiche principali sembrano essere da un lato il dilagare di una scrittura “piana” da ultimo Franzen o da maledetto – chiamiamolo feuiletton reloaded – e dall’altro invece una messa in scena di se che può essere frammentata come in Lerner o para-novecentesca come in Ksnausgaard ma che in realtà mi pare molto libera appunto perché consapevole della propria crescente irrilevanza storica. Tra tutti gli scrittori che hai incontrato, non ce n’era proprio nessuno con l’occhio lucido della pazzia, con l’euforia dettata dal declino in cui proprio perché senza mezzi e senza scopo ci si può finalmente divertire?

No. È triste, ma è così. La letteratura americana è una spianata uniforme di voci molto ben educate e non c’è (o io non vedo) molta possibilità di uscire dal coro. Prima citavi Atticus Lish, lui ha lo sguardo del pazzo ma forse per altri motivi, e ha una scrittura che ti fa dire: «Ah! Finalmente». Lerner ha osato perché vive dell’idea di non essere un romanziere, o pensava di non poterlo essere e quindi ha dato sfogo a una parte di sé che non credeva esistere. Knausgaard addirittura si è fatto trascinare dalla disperazione e ha aperto un rubinetto di pensieri intricati. Però non c’è più spazio per i bohemien, per i salti nel vuoto, per i colpi di testa.

Un romanzo scritto su carta per rotative in tre mesi rischia di restare quello che è: la Torah apocrifa di un pazzoide. Questo non dipende tanto dagli scrittori, quanto da chi li forma e chi li pubblica. Dipende dal rigore che il sistema ha stabilito dei canoni e li fa rispettare, non per cattiveria o per miopia, ma perché “funziona”. Il non aver nulla da perdere, rende paradossalmente tutti molto oculati. Voglio fare lo scrittore, studio per fare lo scrittore, prendo un master in scrittura, trovo un bravo agente che mi trova un bravo editore e scrivo il romanzo giusto. Così non rischio di essere preso per un genio ma nemmeno di vivere sotto un ponte.

E poi, gli scrittori, tutto questo polso non ce l’hanno mica. Non vanno mica a vedere come vanno le cose per fare una valutazione oggettiva del mercato e di cosa potrebbe funzionare (eccetto forse quel simpaticone di Franzen). Lasciano che siano i professionisti a fare per loro. Non devono nemmeno più venire a New York per essere notati. Basta un’email nella casella giusta. Lish, Lerner, sono persone che hanno più vocazione al talento, forse, e meno vocazione all’ordine. Parlavo di queste cose di recente con Cat Lacey, che ha scritto un libro chiamato Nessuno scompare davvero, e che ha scoperto di stare scrivendo fiction mentre riordinava diverse cartelle di appunti che dovevano essere un reportage. Mi ha detto: «Se avessi potuto avrei stampato tutto e lo avrei mandato all’editore e gli avrei chiesto di fare lui il libro, che io avevo già scritto e di mettermi all’editing non avevo voglia». Ecco, questo è uno dei picchi di pazzia creativa a cui possiamo fare affidamento. Non molto di più. Hunter Thompson mandava gli appunti presi sui tovaglioli dei bar dal Kentucky Derby, e lui lo sguardo folle ce l’aveva. Peccato.

Il fatto è che parliamo di americani alla fine, e la letteratura è soprattutto intrattenimento. È bello come il tuo libro riesce a far entrare il lettore in questa specificità: un Marco Roth che dopo un testo di esordio come The Scientists: A Family Romance si butta sul young adult con divertimento e coscienza in Italia non esiste. C’è quasi sempre un’esplicita vergogna nei confronti dei colleghi e della critica, e un’incapacità di sbarazzarsene anche adesso che la festa è finita. E niente, dev’essere proprio una vocazione al martirio cattolica.

Paul Auster: «La poesia è bella, ma nessuno è disposto a affrontare una tempesta per venirla a sentire». Meno che meno a pagare l’ingresso.

Claudia Durastanti ha pubblicato per Marsilio i romanzi Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (2010) e A Chloe, per le ragioni sbagliate (2013) e per minimum fax Cleopatra va in prigione (2016); un suo racconto è incluso nell’antologia L’età della febbre (minimum fax 2015).

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